Intervista
1 settembre 2009

D’ALEMA, SE LA DIALETTICA E’ TUTTO

Intervista di Giorgio Secchi - Bollettino, rivista della Comunità ebraica di Milano


Prima la campagna elettorale per il Parlamento europeo e le amministrative. Poi, da giugno a ottobre, impegnato a sostenere (nella battaglia congressuale del Partito democratico), Pierluigi Bersani nella sua corsa alla segreteria. “Avrà il mio voto, ha la forza politica e culturale per guidare il Pd e anche un linguaggio nuovo”, dice D’Alema, ribadendo la volontà di far parte del gruppo dirigente di un partito che si dia più solidi “fondamenti, basi ideali, forma e proposta politica”. Anche quando non è in gara in prima persona, D’Alema divide e spacca. Nel Pd c’è chi lo ama o lo considera – come del resto come del resto anche molti avversari della destra – il migliore esponente della sinistra. E c’è chi, come Dario Franceschini, si è candidato alla segreteria “per no riconsegnare il partito a quelli che c’erano molto prima di me”, e l’allusione a D’Alema era trasparente. Da ministro degli Esteri, nel governo Prodi, ha ottenuto buoni voti da analisti e osservatori di politica internazionale, ma dfi quell’intensa e appassionata esperienza gli viene sempre ricordata con tono di rimprovero la passeggiata a Beirut sotto braccio con un esponente di Hezbollah, il movimento integralista che sostiene Hamas nella Striscia di Gaza. D’Alema ogni volta sbuffa, per un attimo sembra perdere la pazienza, poi ricomincia a spiegare il suo punto di vista. Lo ha fatto anche con noi, in questa intervista.

Nella sua vita ha avuto rapporti personali o di amicizia con persone del mondo ebraico? E’ mai stato ad Auschwitz?

Ho avuto ed ho intense relazioni umane e di amicizia con persone che fanno parte del mondo ebraico. La mia prima moglie è ebrea e con lei e tutta la sua famiglia ho mantenuto un ottimo rapporto di amicizia. Ho avuto ed ho rapporti intensi con Israele, che ho visitato diverse volte e non solo per ragioni politiche. In particolare, oltre ai rapporti normali con esponenti dei partiti e del governo, ho costruito un’amichevole collaborazione con le personalità che si sono impegnate nella definizione dell’ipotesi dell’Accordo di Pace di Ginevra e in particolare con Yossi Beilin. Ho visitato diversi campi di concentramento e come presidente della Fondazione Italianieuropei ho promosso diverse occasioni di incontro e di dialogo interculturale e interreligioso a cui hanno partecipato intellettuali ed esponenti delle Comunità ebraiche, oltre che intellettuali israeliani. E’ davvero un elenco molto lungo che si conclude nel recente convegno di Marina di Camerota, il quale ha avuto il suo momento culminante in un mio dialogo con il filosofo Avishai Margalit.

La sinistra ha sempre avuto un rapporto ambivalente col mondo ebraico. Attenta ai rapporti con le comunità italiane, mentre il giudizio nei confronti di Israele è stato talvolta duro e, per alcuni, troppo sbilanciato verso la causa palestinese. Oggi il Governo e la Destra sembrano essere stati capaci di stabilire un rapporto più diretto con il mondo ebraico, di totale appoggio ad Israele. Cosa pensa dovrebbe fare oggi il PD?

La sinistra in Italia ha sempre combattuto l’antisemitismo ed ha avuto storicamente un rapporto positivo con le Comunità ebraiche, anche se talora dialettico a proposito del conflitto israelo-palestinese. Tuttavia sono oramai almeno venticinque anni che abbiamo definito una posizione equilibrata e rispettosa della fondamentale esigenza di sicurezza dello Stato di Israele. Io ho sempre perseguito una politica di dialogo non solo con la sinistra israeliana, ma con le autorità israeliane. Quando diventai segretario del Pds, nel 1994, mi recai in visita a Netanyahu, che era diventato per la prima volta primo ministro di Israele. Una decisione che suscitò qualche polemica, ma che era coerente con una politica di dialogo con il governo israeliano. È vero che negli ultimi anni la destra è stata capace di stabilire un rapporto più diretto con il mondo ebraico. Anche sulla base di un totale sostegno ad Israele in chiave antiaraba e anti islamica. Nel clima dello scontro di civiltà, specie dopo l’11 settembre del 2001, l’idea di una unità del mondo ebraico-cristiano contro l’Islam ha spinto la destra, non solo in Italia, ad un sostegno sempre più acritico verso le posizioni israeliane più oltranziste. La mia opinione è che questo tipo di convergenza sia estremamente dannosa per Israele e per le sue più reali e profonde necessità.

Alla luce di quanto successo nelle due conferenze di Durban, Lei non ritiene che oggi nel 2009 l’antisionismo sia ancora una forma di antisemitismo mascherato?

Non credo che sia conveniente confondere l’antisemitismo e l’antisionismo. Per quanto mi riguarda, non sono né antisemita né antisionista. Sono contrario a tutte le scelte compiute dai governi israeliani che sono andate nella direzione opposta rispetto al processo di pace e al riconoscimento dei diritti dei palestinesi. Così come ho sempre combattuto le posizioni estremiste che si sono manifestate dall’altra parte.

Con Barack Obama le posizioni di Washington per la prima volta dopo molto tempo si sono un po’ allontanate da quelle di Israele. E che giudizio dà dei discorsi di Obama a Il Cairo e di Netanyahu a Bar Ilan?

La nuova amministrazione Usa ha chiesto al governo israeliano di riprendere il cammino verso un accordo di pace con i palestinesi ed ha anche chiesto che vi siano segnali concreti a cominciare dal blocco degli insediamenti e quindi dalla cessazione della colonizzazione della Cisgiordania. Ma il primo ministro di Israele, sebbene abbia accennato alla possibilità della costituzione di uno Stato palestinese (cosa importante perché mai sino ad ora Netanyahu si era espresso in questo senso), non ha tuttavia dato alcun segno di voler rispettare gli impegni che pure erano stati assunti dal precedente governo israeliano. Come più volte ribadito dall’Unione Europea, la pace significa il riconoscimento di Israele da parte dell’intero mondo arabo e concrete garanzie anche internazionali per la sicurezza dello Stato ebraico. La pace è possibile riconoscendo che il rientro in massa dei profughi palestinesi non può avvenire nello Stato di Israele, ma a condizione che lo Stato palestinese possa sorgere entro i confini precedenti alla guerra del ’67. E che si trovi una soluzione per Gerusalemme, la quale può essere, come molti auspicano, capitale di due Stati. Sembrava che il governo Olmert si stesse avvicinando alla consapevolezza della necessità di queste scelte difficili. La mia sensazione è che, purtroppo, con Netanyahu il processo di pace stia subendo una battuta d’arresto proprio nel momento in cui, invece, l’impegno attivo della nuova amministrazione americana potrebbe farci fare importanti passi avanti.

La sua passeggiata a Beirut a braccetto del deputato di Hezbollah Hussein Haji Hassan le è costata molte critiche. Nel mondo ebraico persiste un pregiudizio nei suoi confronti. Cosa ci può dire in proposito?

L’Italia si adoperò, con successo, per fermare la guerra tra Israele e Libano e per dispiegare una missione dell’ONU rafforzata al confine tra i due Stati. Si trattò non soltanto di un grande risultato diplomatico del nostro Paese, sottolineato dallo svolgimento a Roma della Conferenza di Pace e dall’attribuzione all’Italia del comando di Unifil 2, ma soprattutto di una rilevante e concreta garanzia di pace e di sicurezza sia per il Libano che per Israele. Non c’è dubbio, infatti, che durante il recente conflitto a Gaza se non si è aperto un secondo fronte con Hezbollah lo si deve in misura importante proprio alla presenza di una forza internazionale di interposizione. Nei giorni della guerra ho visitato più volte Israele e il Libano . In Israele ho incontrato i familiari dei soldati che erano stati rapiti da Hezbollah. In Libano ho visitato i quartieri bombardati di Beirut sud, nei quali molti civili erano stati uccisi. In quello stesso 14 agosto in cui fui a Beirut (era l’ultimo giorno di guerra), dalla capitale libanese scrissi una lettera personale a David Grossman, il cui figlio era rimasto ucciso nell’ultima notte di combattimenti. Sono un uomo di pace e ho ritenuto giusto manifestare la mia vicinanza alle vittime dell’una e dell’altra parte, come a mio parere dovrebbe fare chi vuole esercitare davvero una funzione di pace. Le polemiche furono stupide e immotivate. Gli insulti contro di me e i manifesti della destra sui muri delle città italiane nel momento in cui l’Italia era protagonista di una così significativa azione di pace restano una pagina vergognosa e meschina della politica nazionale.

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