Discorso
19 marzo 2004

Gli errori del premier su Sofri


Adriano Sofri resterà in carcere. Almeno per ora. E questo perché ieri l’altro, dentro l’Aula di Montecitorio, si è consumata una delle pagine più tristi e moralmente ripugnanti dell’attuale stagione politica. I fatti, innanzitutto. Adriano Sofri è recluso da sette anni nel carcere di Pisa. Sconta una pena definitiva per un reato rispetto al quale egli si è sempre proclamato innocente. Al punto di non aver voluto usufruire nel corso di questi anni di alcuno dei provvedimenti che la legge prevede (uscite temporanee e permessi), come testimonianza della propria condizione di cittadino che, pure riconoscendo pienamente lo Stato ed i suoi ordinamenti, non accetta in primo luogo sul piano morale la condanna subita. A fronte di questa condizione, e registrata la volontà esplicita di Berlusconi di procedere nel senso della grazia, l’onorevole Boato aveva presentato una proposta di legge che, se approvata, avrebbe consentito al capo del governo di onorare l’impegno assunto, senza traumi istituzionali con il ministro della giustizia, Roberto Castelli, da sempre contrario a un atto di clemenza. Insomma una via d’uscita finalizzata non solo alla liberazione di un uomo che ha scontato già oltre un terzo della pena inflittagli, ma anche un modo per salvaguardare l’onore e la reputazione del leader di una maggioranza parlamentare. Poi, improvviso, il voltafaccia. Quella stessa maggioranza, e in primis il partito del presidente del Consiglio, hanno impallinato la legge. Lo hanno fatto nella maniera più subdola e volgare. Approvando un emendamento che di fatto ne invalidava la sostanza, prevedendo l’obbligo di richiesta della grazia da parte del detenuto stesso. Inevitabile a quel punto il ritiro della proposta di legge da parte di Boato e il voto negativo dell’Aula che spegne per una fase le speranze riposte da molti in un atto di umanità e giustizia. Sono almeno due le domande che pone una vicenda così imbarazzante. La prima investe, una volta di più, il capo del governo. Berlusconi ha assunto pubblicamente un impegno personale e morale. Il suo partito, la sua maggioranza e il guardasigilli da egli nominato (per inciso, lo stesso personaggio ripreso ieri mentre saltellava insieme a un gruppo di giovani sull’onda dello slogan “chi non salta italiano è”), hanno clamorosamente smentito le sue parole. Delle due l’una. O il capo del governo conta meno di nulla e non è in grado neppure di governare i suoi più stretti collaboratori di partito e di governo. Oppure egli è un uomo che parla a vanvera. Un uomo dalla parola vuota e leggera.
Il presidente del Consiglio ha spiegato che non “essendo lui un dittatore” non poteva imporre la sua volontà ai parlamentari della maggioranza. In realtà non è necessario essere un dittatore per imporre ad un ministro di giustizia che trae la sua legittimazione dall’essere stato indicato dal presidente del Consiglio di uniformarsi alla volontà espressa dal capo del governo. Sarebbe sufficiente essere un primo ministro degno di questo nome e deciso a far valere le sue prerogative. Pur non essendo un dittatore Berlusconi ha minacciato il voto di fiducia sulla legge Gasparri. Il che denota che quando sono in gioco i suoi interessi egli è assai meno tollerante con il dissenso. Qui era in gioco la sua credibilità sul piano morale e credo che anche per questo chi lo stima (come per esempio Giuliano Ferrara) lo avrebbe visto volentieri alzarsi e parlare alla sua maggioranza prima di quel voto sciagurato. Ma evidentemente all’on. Berlusconi preme di più l’avere che l’essere.
L’altra domanda attiene al merito dell’incidente dell’altro ieri. E in particolare a quell’emendamento che ha finito coll’affossare una legge utile e tale da non stravolgere i principi dell’ordinamento esistente. Perché la destra ha voluto produrre una frattura di questo genere? Le norme attuali sulla grazia non prevedono l’obbligo di una domanda ad opera esclusiva del condannato. L’articolo 681 del codice di procedura penale prescrive che la richiesta possa essere avanzata dal detenuto o dal congiunto o da altre figure prossime allo stesso e che la grazia possa essere concessa anche in assenza di domanda o proposta. Avere proposto, in relazione al provvedimento in esame, una restrizione della normativa attuale ha una sola motivazione. La volontà di umiliare Sofri, negando a un uomo che affronta da sette anni la quotidianità del carcere, il diritto di continuare a proclamarsi innocente. Forse sta qui la gravità maggiore – l’enormità culturale – del danno inferto dalla destra alla nozione di stato di diritto. C’è il riaffiorare di una pulsione fascista nella volontà di mortificare non solo le carni ma lo spirito di una persona. Di un uomo che in tutti questi anni si è comportato in modo esemplare nei confronti dello Stato e delle sue istituzioni. Un uomo che non è fuggito, sottraendosi come molti altri, alle proprie responsabilità. Che non ha cercato di inquinare i processi che lo vedevano imputato o di accasarsi presso una corte compiacente. D’altra parte la logica stessa di quell’emendamento coltiva un principio sciagurato. L’idea che un innocente, nel senso di una persona che si ritenga tale, mai potrebbe ottenere un provvedimento di grazia fintanto che, chiedendolo, egli non accettasse implicitamente di riconoscere una colpa non commessa. Mentre, all’opposto, potrebbero più facilmente accedere a quel trattamento detenuti condannati perché rei confessi e in quanto tali privi di particolari scrupoli nell’avanzare una richiesta di clemenza. Ha un senso tutto ciò? Lo si può considerare il segno di una visione illuminata della giustizia e della responsabilità di uno Stato moderno nei confronti dei propri cittadini? Francamente, credo di no. Che non lo si possa fare. E penso che la vicenda di questi giorni segni un allarme ulteriore sul fronte della concezione dello Stato e della civiltà democratica da parte di una maggioranza sempre più confusa e impresentabile. Spero che altre personalità – al pari di Giuliano Ferrara – sapranno distinguersi, anche solo per una ragione morale e di principio, dallo spettacolo indecoroso offerto da una destra cinica e prigioniera del proprio passato.

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