Intervista
8 dicembre 2004

Dalla Cina all’Argentina. Governo senza politica estera

Intervista a Massimo D'Alema di Pasquale Cascella - l'Unità


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Non ha bisogno di schierarsi, il presidente dei Ds. «Sono naturalmente dalla parte di Carlo Azeglio Ciampi: non c’è ragione per chiudersi in un protezionismo che poco ha a che fare con la battaglia per il rispetto dei diritti umani e delle libertà, certo necessaria ma ben più efficace se condotta non con gli embarghi ma con l’apertura e l’evoluzione delle relazioni internazionali. Mi chiedo, piuttosto, se sia sulla stessa linea chi esprime la responsabilità collegiale del governo».

Di questa, D’Alema, ha motivo di dubitare. E non per una contrapposizione dovuta alla politica interna. È che, nella sua recente missione in Argentina a capo di una delegazione dell’Europarlamento, ha avuto modo di misurarsi con la grande capacità di competizione della Cina. Oltre che con le conseguenze dell’ambiguità e dell’indeterminatezza del governo di Silvio Berlusconi nelle relazioni internazionali. È accaduto, infatti, che mentre D’Alema era impegnato a Buenos Aires in una conferenza sulla governance della globalizzazione, rimbalzava da Puerto Madryn, in Patagonia, l’eco dell’invettiva pronunciata dal presidente Nestor Kirchner durante l’inaugurazione di una impresa ittica con capitali italiani: «Non è irrilevante - aveva sostenuto Kirchner con una veemenza sottolineata da tutte le agenzie di stampa internazionali - che questo investimento sia differente dall’atteggiamento che ha il governo italiano rispetto alla ristrutturazione del debito argentino».

Di più, l’esplicito «rimprovero a Berlusconi» del presidente argentino era messo in relazione alle «braccia spalancate» con cui l’Argentina aveva accolto tanti immigrati italiani quando era stato il nostro paese a vivere «i suoi momenti peggiori». Immediato è scattato l’interesse per la reazione dell’esponente della sinistra italiana in quel momento ospite del Parlamento argentino.

D’Alema, come ha commentato?
«Ho risposto che non è mia abitudine parlare di politica italiana all’estero, men che meno entrare in polemiche che coinvolgono il governo italiano. E i giornali questo hanno riferito, correttamente».

Perché non ne ha approfittato?
«Serietà e responsabilità vogliono che non si faccia mai propaganda di parte sugli interessi del paese. Forse avrò deluso qualcuno, sicuramente ho rispettato il compito di favorire la ripresa dei negoziati per una intesa equa che non comprometta la ripresa dell’Argentina ma nemmeno ignori il dramma di 250 mila piccoli risparmiatori italiani».

Se qualche ragione di polemica c’era, e c’è, adesso che è in Italia può ben manifestarla...
«Il governo Berlusconi non avrà prestato ascolto alle richieste di aiuto dell’Argentina ma non ha fatto granché neanche per la legge a difesa del risparmio nel nostro paese».

E la Cina: cosa e come ha avuto a che fare con la sua visita in Argentina?
«Sono arrivato a Buenos Aires a ridosso delle visite dei presidenti della Cina, della Corea e del Vietnam per negoziare accordi di scambi commerciali, e qualche giornale ha rilevato come con l’Europa stia trattando dal 1996 con il Mercosur (la comunità economica sud americana), mentre con la Cina sia stato risolto in pochi giorni un accordo di scambio per miliardi di euro. E anche in questo caso mi è stato chiesto se l’Europa non abbia sospetti e timori per il protagonismo dell’area asiatica».

È esattamente la ragione dell’ultima offensiva leghista contro il capo dello Stato: c’è da aver paura della Cina?
«Ripeto qui quel che ho detto una settimana fa in Argentina: no, non dobbiamo avere paura della Cina. Anzi, è positivo che questo grande paese, con un forte bisogno di commodities per il suo sviluppo, sia sempre di più attore globale sulla scena internazionale. Il problema non è di aver paura di essere soppiantati dalla Cina, ma di come cooperare e competere nella realtà di oggi. Nell’America latina, storicamente volta verso l’Europa, ci sono la Fiat, la Pirelli, la Telecom. Ci siamo noi, non i cinesi. Certo, la Cina in poco tempo è assurta a principale importatore di soia dall’Argentina e di petrolio un po’ da tutto il Sud America, mentre l’Europa restringe le tradizionali importazioni alimentari per proteggere i propri produttori per cui comincia ad essere considerata da quelle parti sempre come un parente, ma lontano, anziano e un po’ egoista, non più in grado di dare granché. Dalla competizione dovremmo trarne lo stimolo per consolidare lo storico rapporto tra le due sponde dell’Atlantico con una visione strategica comune. O, inevitabilmente, è destinato a logorarsi».

La globalizzazione può presentare il conto anche ai paesi più sviluppati?
«La globalizzazione è un fattore di crescita se governata, se cioè sono le opzioni politiche a guidare i processi economici. Altrimenti è destinata a produrre enormi disuguaglianze. E anche conflitti di identità, come quello che rischia di investire la stessa Europa se non riesce a tenere insieme welfare, innovazione e competizione».

L’Argentina ha già rischiato il fallimento. Lei ha guidato una delegazione del Comitato parlamentare per le relazioni tra l’Europa e il Mercosur e ha incontrato il nuovo presidente, le alte cariche istituzioni, i leader politici, i dirigenti sindacali e i maggiori imprenditori del paese. Che paese ha trovato?
«Un grande paese impegnato a uscire da una crisi drammatica. Che è, certo, crisi economica, ma anche morale, politica e istituzionale. Oggi l’Argentina riprende a crescere, riesce a ridurre la disoccupazione, anche se soprattutto nelle grandi periferie urbane il livello di povertà è sempre acuto. Ma vistoso è il salto compiuto rispetto alla tensione che si toccava con mano nella precedente visita, alla fine del 2001, quando cadeva un presidente dopo l’altro. Adesso, intorno alla figura di Nestor Kirchner, l’Argentina sta ritrovando una certa stabilità politica, anche se non mancano preoccupazioni».

Quali preoccupazioni, su cosa?
«Soprattutto per la dialettica democratica, in presenza della forte concentrazione di potere nel partito giustizialista e intorno alla Casa Rosada. Nel movimento peronista c’è di tutto: la destra, il centro, la sinistra. Lo stesso presidente, eletto grazie alla rinuncia al ballottaggio dell’ex presidente Carlos Saul Menem, sta cercando di rimontare il consenso della popolazione con un profilo sempre populista ma d’impronta progressista. Cosa gli consente di essere guardato, se non con simpatia, almeno senza ostilità da parte della sinistra».

Una sinistra, quella argentina, che aveva vinto con Fernando De la Rua guardando al centrosinistra europeo, per poi essere travolta dalla crisi dell’esperienza di governo. Non è un modello esportabile da quelle parti?
«C’è nella sinistra argentina una grandissima riflessione, che individua la causa del fallimento di quella esperienza nello scarso coraggio di innovare fino in fondo. De la Rua aveva eredito una economia ingabbiata nella cosiddetta dollarizzazione, con una parità con il dollaro che imponeva al peso un valore arbitrariamente alto e, quindi, un corso forzoso disastroso per l’economia reale che non riusciva più ad esportare. Si aggiunga che, attraverso le forme di liberismo selvaggio e corruttivo, passava la privatizzazione dei monopoli, non la liberalizzazione delle potenzialità di sviluppo. Quella era sostanzialmente la politica di Menem, non la concretizzazione della svolta per la quale De la Rua si era impegnato. Il paradosso è che lo scontro destra-sinistra è avvenuto poi nello stesso partito giustizialista, con la contrapposizione tra Menem e Kirchner, e che dal ballottaggio incompiuto è emerso un presidente che cerca di rompere la gabbia liberista».

Però con posizioni venate - lo ha sottolineato lei stesso - da un nazionalismo populista che rischia di acuire il contenzioso finanziario con i creditori europei, e l’Italia, in modo particolare. Incontrando Kirchner è emersa una qualche possibilità di conciliazione?
«Mi auguro proprio che ci sia la volontà politica di risolvere equamente una vicenda indubbiamente complicata: se il grosso del debito è con le istituzioni finanziarie, una parte consistente è però con centinaia di migliaia di risparmiatori che hanno investito nei bond argentini».

Banchieri e risparmiatori non possono essere messi sullo stesso piano?
«È evidente. Vero è il grosso degli istituti finanziari ha tenuto i titoli argentini in portafoglio fin quando poteva contare di ricavarne ingenti guadagni, per poi piazzarli presso i risparmiatori nel momento in cui si è palesato il rischio del default argentino, ma è anche vero che tanti piccoli risparmiatori hanno investito dando fiducia all’Argentina. Anche da questo punto di vista il problema è di trovare soluzioni eque. In questa direzione muove l’iniziativa legislativa dei Ds volta a far emergere le possibili responsabilità delle banche che soprattutto nell’ultimo periodo hanno ceduto ai risparmiatori i titoli a più alto rischio, nei confronti della quale lo stesso presidente Kirchner ha avuto espressioni di apprezzamento. Ora, caduti i tentativi argentini di cercare di risolvere la controversia per via bilaterale con il governo italiano, non resta che la strada del confronto e dell’intesa con l’Europa. E credo che sia un buon risultato della delegazione dell’Europarlamento, oltre che un segnale positivo, che il governo argentino abbia rinunciato a formalizzare una proposta eccessivamente al ribasso, rinviando l’offerta di concambio per il debito privato in default a gennaio. In stretta relazione, quindi, con la ripresa del negoziato per il più largo accordo Mercosur-Ue».

Può valere altrettanto per i rapporti tra l’Argentina e il Fondo monetario internazionale?
«È una prova reciproca recuperare la fiducia dei mercati finanziari internazionali. Quel che colpisce di più in Argentina è la considerazione del FMI come strumento della politica nord americana, persino nelle classi dirigenti. È un riflesso della forte ostilità verso gli Usa che dovrebbe indurre a una qualche riflessione sulla grande opzione tra multilateralismo e unilateralismo».

Ma Bush ha vinto le elezioni americane ideologizzando l’unilateralismo. Né, a giudicare dalla formazione del nuovo governo, pare intenzionato a tornare sui suoi passi.
«È vero, la scelta degli uomini dell’amministrazione Bush non dà il senso di una svolta verso il multilateralismo, ma gli stessi Usa appaiono, come prova la stessa vicenda della guerra in Iraq, prigionieri della legge del più forte. Corrisponde a una visione chiusa e riduttiva dello stesso interesse americano. Tanto più non può essere quella che ha diviso l’Europa nel confronto multilaterale»

Condivide la lettera che Giuliano Amato, Ralph Dahrendorf e Valery Giscard d’Estaing hanno scritto a Bush perché si volti pagina nelle relazioni tra le due sponde dell’Atlantico?
«Sì, c’è bisogno di reimpostare il rapporto con gli Usa. Il che presuppone che l’Europa faccia valere il suo ruolo in modo più efficace. Per questo sarebbe utile anche una lettera agli europei. Non perché il vecchio continente si esprima come contropotere: sarebbe velleitario. Semmai, per condizionare scelte altrimenti sempre e solo unilaterali. Penso al Medio Oriente, nel momento in cui si apre uno spiraglio di opportunità per il rilancio del processo di pace. Ma anche al contributo nella ricerca degli strumenti, culturali e politici, per un nuovo multilateralismo imperniato su più efficaci e moderne istituzioni internazionali. Per questo è decisivo che l’integrazione europea diventi sempre più forte, imbocchi una chiara direzione e abbia una solida guida politica».

Nonostante la Costituzione europea, appena firmata, sollevi dubbi e riserve, nella stessa sinistra, come prova il recente referendum nel Ps francese?
«Ha vinto però il sì, “oui”, degli europeisti. Ed è importante che i socialisti francesi abbiano avuto questo scatto di reni, la determinazione di rilanciare quel ruolo nel processo costitutivo europeo che era stato di Mitterand e di Jospin. È l’ulteriore conferma, dopo il coraggio con cui lo spagnolo Zapatero ha rimosso gli ostacoli frapposti da Aznar al varo della Costituzione, che la discriminante fra la destra e la sinistra oggi passa attraverso l’idea del futuro dell’Europa unita».

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