Articolo
8 ottobre 2013

Russia-NATO. Una cooperazione difficile

Articolo pubblicato sul n. 9/2013 di Limes


Dopo un quarto di secolo, ci troviamo ancora a fare i conti con questioni irrisolte della guerra fredda. Può apparire paradossale, ma a un’analisi delle relazioni tra la Russia e la NATO emergono ancora criticità che tardano a essere superate. In altre parole, se l’obiettivo finale è un vero accordo strategico, e non un compromesso tattico, tra l’Alleanza atlantica e Mosca, ci troviamo ancora nel corso di una lunga transizione. 
Attualmente, i veri ostacoli a un’intesa duratura sono, a mio parere, tre: la diversa percezione delle minacce, l’architettura di sicurezza in Europa e, più fondamentalmente, la reciproca mancanza di fiducia. Dopo la fine della guerra fredda non ha avuto luogo il tanto atteso “grande ridisegno” delle relazioni euro-russe. 
Per molti analisti internazionali, la fine della guerra fredda avrebbe dovuto implicare anche la dissoluzione delle Alleanze militari che avevano dominato il confronto Est-Ovest. La questione, per l’Occidente, ha riguardato anzitutto la NATO e il suo ruolo in un mondo radicalmente cambiato. 
Paradossalmente, la fine della guerra fredda ha prodotto invece un’espansione della NATO, invece della sua liquidazione, e la rivisitazione radicale del suo concetto strategico. 
L’Alleanza atlantica, pur rimanendo caratterizzata come un contesto istituzionale di difesa collettiva, ha indubbiamente acquisito una nuova dimensione politica. La NATO, infatti, si è progressivamente trasformata da alleanza militare a comunità di sicurezza, con un preciso profilo politico radicato nell’Occidente, nelle democrazie liberali e nell’economia di mercato. 
Da parte sua, la Russia, in seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e alle profonde trasformazioni politiche e istituzionali che sono seguite, si presenta oggi sulla scena mondiale con una nuova assertività, mentre descrive il proprio sistema politico nei termini di “democrazia sovrana”. Una definizione che pone l’accento sul fatto che Mosca non accetterà mai alcuna ingerenza nei propri affari interni e sulla propria governance. 
L’enfasi posta sulla sovranità ha anche un significato in termini di politica estera, e implica, ad esempio, che l’obiettivo della Russia è quello di consolidarsi come un centro indipendente di potere e di influenza attraverso la creazione coalizioni internazionali pragmatiche e flessibili, contando non solo sugli aspetti classicamente legati all’hard power (capacità militari, risorse energetiche), ma anche su alcuni elementi di soft power, presentandosi sovente come centro di articolazione di scelte politiche internazionali alternative a quelle occidentali (e in particolare statunitensi). 
In ogni caso, le trasformazioni intervenute nella struttura delle relazioni internazionali nei quasi 25 anni trascorsi dal fatidico 1989 sono state profonde e talvolta radicali. 
L’unipolarismo americano ha toccato il suo culmine con l’intervento militare in Iraq. Da allora, anche in virtù delle vicende economiche mondiali, abbiamo assistito all’avvento di un mondo multicentrico, che a volte si presenta come una “multipolarità sbilanciata”. Abbiamo assistito, insomma, a una dispersione del potere su scala globale, mentre fenomeni di forte disagio sociale, economico e culturale hanno reso diversi Paesi pericolosamente instabili. 
Mentre la percezione della svolta multipolare a livello globale è ben presente nella visione strategica sia russa che euroatlantica, non è altrettanto chiaro che allo stesso tempo si è determinato, di fatto, una sorta di “mini-multipolarismo” europeo, i cui attori principali sono l’Unione europea, la Russia e la Turchia. 
In effetti, Mosca considera ormai che la prospettiva di una nuova architettura di sicurezza in Europa sia un obiettivo lontano se non velleitario. Dal canto suo, Ankara, a seguito del disincanto sulle chance di ingresso a pieno titolo nell’Unione, ha perseguito in questi anni una politica estera autonoma e talvolta scollegata sia dalle priorità europee che da quelle della NATO. Infine, gli Stati Uniti si presentano sempre meno come una “potenza europea” e spostano sempre più il baricentro dei loro interessi e delle loro preoccupazioni verso il Medio Oriente e il Pacifico. 
Per porre ordine a questo “caos pacifico” in Europa, un’interessante proposta è stata avanzata nel 2010 da ricercatori dello “European Council on Foreign Relations”. Essa era articolata in tre punti: la creazione di uno stabile “trilogo” europeo di consultazioni politiche e strategiche tra UE, Russia e Turchia; l’elaborazione, da parte di tale trilogo, di un “piano d’azione per la sicurezza europea”, con lo scopo ridurre le tensioni ancora esistenti nel Vecchio continente, in particolare nelle sue regioni periferiche o limitrofe, come i Balcani e il Caucaso; la negoziazione e la firma di un trattato per la sicurezza europea, come coronamento di una serie di misure di confidence building.
Ciò che trovo molto interessante di questa prospettiva è il fatto che essa colloca i rapporti UE-Russia e NATO-Russia sullo sfondo di contesti geostrategici più ampi. In effetti, le relazioni tra Mosca e l’Alleanza atlantica hanno risentito fortemente di due processi paralleli. Da una parte, infatti, sono state influenzate dalla crescente interazione, pur problematica, tra la Russia e l’Unione europea. Dall’altra, sia la Russia che la NATO si trovano sempre più chiamati a operare in un mondo che è sempre più posteuropeo e postoccidentale. 
Qualche anno fa Zbigniew Brzezinski sottolineava come, dal punto di vista della NATO, la Russia non era certo da considerare come “un nemico”. Tuttavia, ciò non implicava automaticamente la cessazione dei sentimenti di ostilità, spesso reciproci. 
E’ inutile nasconderlo: nelle relazioni tra i due attori vi sono molti dossier problematici, che si tratti di armi nucleari tattiche, esercitazioni, dottrine militari, il Trattato sulle Forze Convenzionali in Europa (CFE), la difesa missilistica, l’allargamento della NATO a nuovi Paesi (pensiamo al caso della Georgia), il conflitto russo-georgiano del 2008 e la strategia di intervento nelle principali aree di crisi (come nel caso della Libia e, ora, della Siria). 
L’unica strada per superare tale clima di sfiducia avrebbe dovuto consistere, per Brzezinski, in un impegno con la Russia in due fondamentali direzioni: da una parte, il consolidamento della sicurezza in Europa attraverso relazioni più strette con Mosca, sul modello del Consiglio NATO-Russia; dall’altra, la collaborazione nel contesto di una rete di sicurezza globale. A questo ultimo riguardo, la proposta di Brzezinski consisteva nell’incoraggiare rapporti tra la NATO e la CSTO (la “Collective Security Treaty Organization” tra Russia, Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kyrgyzstan, Tajikistan e Uzbekistan) e tra la NATO e la “Shangai Cooperation Organization” (tra Cina, Kazakistan, Kyrgyzstan, Russia, Tajikistan e Uzbekistan). 
In sintesi, il modello delineato da Brzezinski equivaleva a una sorta di rete di sicurezza trans-continentale euroatlantica ed euroasiatica. Una mossa che avrebbe dovuto risolvere sia la contrapposizione NATO-Russia che l’annoso dibattito, tutto interno all’Alleanza Atlantica, sugli impegni fuori area.
Molte sono le questioni sollevate da questo affascinante schema di stampo geopolitico. 
E’ certamente vero che le più pericolose aree di instabilità si trovano oggi ben al di fuori delle direttrici euroatlantica ed euroasiatica. Intere regioni del Pianeta – ad esempio il Medio Oriente – sono prive di meccanismi non dico di sicurezza collettiva o cooperativa, ma anche solo di fori regionali di risoluzione delle controversie. 
Tuttavia, la costruzione di Brzezinski si fondava sul presupposto di una centralità dell’Alleanza atlantica come catalizzatore di cooperazione con altre aggregazioni di sicurezza le quali, in ultima istanza, avrebbero contribuito indirettamente al successo della NATO come attore globale. 
Senza contare che il carattere non statale, transnazionale e non militare delle minacce prevalenti alla sicurezza fa apparire le attuali istituzioni di sicurezza internazionale o regionale non del tutto adeguate a rispondere alle sfide in atto. Si pensi a fenomeni come il riscaldamento globale, la diffusione di pandemie, le crisi agricolo-alimentari, la crescente domanda di energia a livello planetario. Più concretamente, fenomeni come la nuova pirateria e il terrorismo globale non sembrano poter trovare risposte soltanto militari o nelle strutture politiche westphaliane, vale a dire gli Stati-nazione. 
E’ anche a causa di questi cambiamenti radicali nella natura delle minacce che la NATO ha dovuto ripensare la sua stessa ragion d’essere. La NATO era sorta come un’organizzazione per la difesa territoriale degli Stati membri. Oggi, invece, si trova a doversi trasformare in una organizzazione di sicurezza in senso lato. La prima e più immediata conseguenza di ciò è la necessità di adeguare la struttura delle sue forze ai suoi nuovi compiti. Alcuni analisti  descrivono questo come l’obiettivo “50-50”: la disponibilità degli Stati membri a fornire un’iniziale capacità operativa, da completare successivamente con il restante 50% a seconda della natura delle operazioni. 
L’incertezza delle minacce e degli strumenti disponibili da una parte, e la percezione di una reciproca inaffidabilità dall’altra sono due fattori che, al di là della retorica, hanno sinora impedito alle relazioni tra NATO e Russia di trasformarsi realmente in un partenariato strategico. 
Siamo sinceri: nemmeno il volenteroso tentativo di Joe Biden di “premere il pulsante di riavvio” (“push the reset button”) nelle relazioni tra Washington e Mosca all’inizio del primo mandato del presidente Obama ha prodotto risultati strutturali e non episodici. 
Quello che è certo è che le promesse di un rilancio della cooperazione espresse nel corso del vertice NATO di Lisbona del 2010 sono state solo in parte mantenute e gli obiettivi di “trasparenza, reciprocità e prevedibilità” nelle relazioni con la Russia sono lungi dall’essere stati pienamente raggiunti. 
Senza contare la volontà, che periodicamente emerge da entrambe le parti, di mantenere le relazioni nell’alveo di un “confronto controllato” piuttosto che di cooperazione strutturata. In effetti, essa appare come una sorta di impegno reciproco limitato, con forti elementi di rivalità, piuttosto che una cooperazione propriamente detta. In determinate fasi di tale complesso rapporto, abbiamo anche assistito al dispiegamento di una reciproca strategia di “soft containment”. In questo contesto, può sembrare che la reciproca percezione di minaccia costituisca una scelta politica piuttosto che una reale necessità di sicurezza.
Cosa fare, quindi? Dovremmo accontentarci di una convivenza più o meno pacifica, di “concordare di dissentire” (“agree to disagree”), di vedere sostituita la guerra fredda con una “pace fredda”? 
Sono persuaso che il primo passo verso una reale ripartenza sia quello di riconoscere con onestà le differenze, ma senza fermarsi a esse. Se vogliamo incrementare la fiducia reciproca, dobbiamo discutere chiaramente delle rispettive divergenze. E’ evidente, ad esempio, come mostrano le risposte date alle crisi regionali, che le culture di sicurezza tra i Paesi NATO e la Russia sono molto diverse e rispondono a priorità politiche che in alcuni casi sono distanti se non opposte. Tentare di elaborare una piattaforma comune può dunque, allo stato attuale, non essere realistico. Ciò che è invece possibile e doveroso è aumentare la fiducia reciproca attraverso un esercizio forse poco diplomatico, ma assai efficace e produttivo nelle relazioni di lunga durata. Mi riferisco alla parresia, e cioè alla pratica di enunciare con chiarezza e senza mezzi termini le aree di disaccordo, specie quando non si tratta semplicemente di un diverso giudizio sui metodi utilizzati, ma di una lettura radicalmente dissimile degli aspetti sostanziali delle questioni aperte in Europa e delle crisi internazionali. 
In secondo luogo, occorre chiarire a quali condizioni ed entro quali limiti la Russia intenda e possa collaborare con una istituzione multilaterale come la NATO, all’interno della quale vi sono Paesi che Mosca considera come partner e altri come competitor. 
In uno studio del 2007, due studiosi identificavano – forse in modo troppo schematico –, tra i Paesi membri della UE, cinque distinte categorie di Stati a seconda dei rispettivi rapporti con la Russia: i “cavalli di Troia” (“Trojan horses”), i “partner strategici”, i “pragmatici amichevoli” (‘friendly Pragmatists’), i “pragmatici freddi” ("frosty Pragmatists’) e persino i “nuovi guerrieri freddi” (“new cold warriors”). 
Comunque sia, per ragioni storiche, culturali e, ancor di più, di interdipendenza economica, l’Unione europea, al di là dei diversi orientamenti e delle diverse percezioni che ci sono tra di noi, non può che essere un partner della Russia e non un competitore. 
In questo senso, l’Unione potrebbe giocare un ruolo chiave, ma certamente non in contrapposizione con gli Stati Uniti.
Su questo punto vorrei essere chiaro. La NATO non può essere concepita come un terreno di caccia del bilateralismo, specie quando ciò genera la percezione, giusta o sbagliata che sia, che l’obiettivo sia quello di produrre un disaccoppiamento tra l’Europa continentale e la sua dimensione atlantica (il rapporto con gli Stati Uniti). 
Non mi pare realistico immaginare che nel breve periodo si possa trovare una chiave universale per aprire tutte le porte di una collaborazione piena e incondizionata. Ritengo, però, che si possano esplorare le possibilità di convergenze sostanziali e pragmatiche. Mi sembra perciò necessario che sia la NATO che la Russia si concentrino su questioni fondamentali, con un impatto potenziale sulla sicurezza globale e non solo regionale. 
La NATO dovrebbe privilegiare le convergenze con la Russia sugli scacchieri extraeuropei più rischiosi, invece che continuare a puntare sull’allargamento in Europa. Da parte sua, la Russia non dovrebbe più considerare l’Alleanza come un network politico-militare in funzione anti-russa. 
Un primo banco di prova, per le sue chiare implicazioni politiche e non solo securitarie, è lo sviluppo della cooperazione tra NATO-ISAF e Russia in Afghanistan dopo il 2014, anno del ritiro di gran parte delle truppe combattenti e il dispiegamento di una nuova missione di appoggio (probabilmente 50.000 unità) alle forze di sicurezza afghane, così come indicato dal vertice NATO di Chicago del 2012. 
Vorrei segnalare, inoltre, che importanti sviluppi nella collaborazione NATO-Russia hanno già preso forma da tempo nel teatro afghano e regionale. A partire dal 2008, infatti, la Russia, sulla base di considerazioni fondate sui propri interessi strategici nell’area, consente il transito multinodale (su strada, ferrovia e spazio aereo) di veicoli non militari di Paesi NATO e non-NATO impegnati in Afghanistan, in applicazione della risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1386/2001. Sinora ben 60.000 container diretti alle forze ISAF in Afghanistan sono stati trasportati da vettori russi; altri 100.000 attendono il trasporto. Un’esperienza, quindi, positiva. Al di là di questi aspetti logistici, l’Afghanistan rimarrà un punto di riferimento essenziale nei rapporti tra NATO e Russia in un’area ritenuta da entrambi di importanza strategica vitale sotto il profilo della sicurezza interna, internazionale e transnazionale. 
Il nodo afghano è importante anche come ambito di sperimentazione di una collaborazione tra NATO e Russia nei nuovi scenari di crisi, che sono molto diversi dal passato. Si tratta, infatti, di un’area extraeuropea, dove è di scena una guerra asimmetrica, dove il terrorismo transnazionale (Al Qaeda) aveva trovato una base operativa e un quartier generale, dove ha luogo uno scontro identitario con connotazioni di radicalismo a sfondo religioso, e dove si registra un movimento quasi “tettonico” di equilibri e tensioni regionali che coinvolgono attori “locali” (Pakistan), Paesi emergenti (India) e un centro egemonico continentale con prospettive globali (Cina). 
Non si tratta, perciò, come romanticamente talvolta viene affermato, di una riedizione del “Grande gioco” per l’influenza nell’Asia centrale tra la Russia e l’allora potenza occidentale, la Gran Bretagna. Piuttosto, siamo dinnanzi a dinamiche drammaticamente nuove, che solo superficialmente possono essere ricondotte alla logica dell’equilibrio delle potenze. Queste sfide complesse e multivettoriali richiedono risposte non solo occasionalmente coordinate, ma pianificate congiuntamente, anche nel medio e lungo periodo, nella prospettiva della stabilizzazione e del consolidamento di istituzioni funzionanti. NATO e Russia hanno una responsabilità nella regione, ed è quella di mettere in piedi equilibri politici sostenibili e meccanismi di risoluzione dei conflitti che coinvolgano i Paesi dell’area. 
Tutto ciò non si può improvvisare sotto l’urgenza del ridimensionamento della missione ISAF, ed è interesse anche della Russia che la NATO non lasci tale teatro nelle condizioni di un assetto precario che rischierebbe di cedere alle prime tensioni interne e regionali.  
Inoltre, e più fondamentalmente, io credo che un campo di collaborazione molto importante tra NATO e Russia sia quello che riguarda le armi atomiche. Penso che sia nell’interesse della NATO, dell’Europa, della Russia e del mondo trovare il modo di coniugare in uno stesso contesto di impegno strategico la deterrenza, la non proliferazione e il controllo degli armamenti, avendo come stella polare un mondo libero da armi nucleari. 
I discorsi di Obama a Praga nel 2009 (in favore del “global zero”, cioè dell’azzeramento degli arsenali nucleari) e a Berlino nel 2013 (per una riduzione di un terzo del numero delle armi strategiche in possesso di Stati Uniti e Russia) costituiscono importanti passi in avanti in questo senso. Ciò che conferisce concretezza alla proposta americana è la parallela intenzione, annunciata da Obama, di procedere anche a una riduzione delle armi nucleari tattiche della NATO e della Russia in Europa. Al momento, l’ostacolo principale rimane quello dello sviluppo del sistema antimissilistico in Europa, che da parte di Mosca si considera, non senza esagerazione, come una situazione contraddittoria rispetto alle prospettive di disarmo. 
Questi nodi strategici e politico-diplomatici non cancellano, tuttavia, la questione centrale, e cioè che le armi nucleari sono divenute oggi un fattore di crescente insicurezza e preoccupazione che chiama in causa, al contempo, le relazioni bilaterali tra Russia e Stati Uniti, i rapporti tra Russia e NATO, le iniziative internazionali riguardanti la necessità di fare chiarezza sul programma nucleare iraniano, da un lato, e la minaccia nordcoreana dall’altro. Senza contare la prospettiva di una proliferazione “verticale”, vale a dire la possibilità che armi nucleari cadano in mano ad attori non statali con intenzioni non propriamente pacifiche. 
Se dovessimo fare un bilancio delle relazioni tra NATO e Russia, potremmo sostenere che esse si sono svolte sinora all’insegna di alcune ambiguità costruttive, alcune rivalità geopolitiche e alcune convergenze pratiche. Tuttavia, le trasformazioni strutturali che stanno avendo luogo in molte parti del mondo, incluso il Mediterraneo e il Medio Oriente, richiederebbero intese finalizzate a contribuire alla stabilità internazionale. Un obiettivo che nessuno di questi due importanti attori può, oggi, conseguire da solo. 
Come ho ricordato, risentiamo ancora delle questioni irrisolte degli anni della guerra fredda. In effetti, a volte possiamo avere la sensazione di stare tornando al clima di quegli anni e alla sempre più frequente logica di confronto tra la Russia e l’Occidente, in particolare tra Mosca e Washington. 
L’esempio più allarmante di questi sviluppi è rappresentato dal conflitto siriano. Sono tra quanti ritengono che l’intervento militare minacciato dagli Stati Uniti, per quanto giustificato come ritorsione per l’intollerabile ricorso ad armi chimiche da parte del regime di Assad,  non solo non avrebbe alcun effetto decisivo sul conflitto, ma rischierebbe persino di ridurre gli spazi per la ricerca di una soluzione ragionevole, laddove, invece, la guerra civile siriana avrebbe potuto e avrebbe dovuto rappresentare un’opportunità di cooperazione. 
A mio parere, da un lato l’Occidente avrebbe dovuto esercitare pressioni sui ribelli sunniti e, dall’altro lato, la Russia avrebbe dovuto spingere con decisione il regime verso l’unica opzione ragionevole, ossia la sospensione delle ostilità e l’avvio di un dialogo per la ricerca di una soluzione politica a una guerra brutale che, in definitiva, nessuno può vincere. 
Invece, ciò che l’Occidente ha fatto è stato favorire Arabia Saudita e Qatar, che hanno fornito armi ai fondamentalisti, mentre la Russia, da par suo, ha sostenuto il regime di Damasco, con il risultato di inasprire ulteriormente le ostilità, alimentando al contempo la convinzione, da entrambe le parti, di poter prevalere nel conflitto. 
Un errore fatale, del quale l’intera regione e la comunità internazionale nel suo complesso rischiano di pagare le conseguenze per lungo tempo. 
Ecco, questo è precisamente l’opposto di ciò che si sarebbe dovuto fare, oltre che un esempio drammatico dei danni che la mancanza di cooperazione tra la Russia e gli Stati Uniti può provocare.
Gli sviluppi più recenti della crisi hanno aperto nuove opportunità e determinato speranze di un esito ragionevole. Non a caso, tali sviluppi sono venuti proprio grazie a una ripresa della collaborazione tra USA e Russia. Ora è necessario costringere il regime di Damasco a smantellare, senza finzioni e ritardi, il suo micidiale arsenale chimico, evitando così un intervento militare, il cui unico effetto sarebbe quello di allargare il conflitto. 
Naturalmente, la mia convinzione è che non basta risolvere il problema delle armi chimiche. La vicenda rischierebbe, così, di trasformarsi in un successo diplomatico del regime, anche per gli errori compiuti dagli americani, la cui forza militare resta predominante anche senza il ricorso ai gas letali. 
Adesso bisogna avere il coraggio di andare avanti fino in fondo, e cioè di imporre il cessate il fuoco e un negoziato politico che veda anche il riconoscimento dei diritti di chi si oppone al regime, nel quadro di una garanzia per tutte le componenti religiose ed etniche della società siriana.
Dovrebbe essere proprio l’Europa a lavorare in questa direzione. Un’Europa di cui si è sentita molto la mancanza, nel corso di questi ultimi anni, per il carattere debole e contraddittorio delle iniziative di singoli Paesi membri in uno scenario, come quello arabo e mediterraneo, nel quale sono in gioco i nostri interessi vitali e nel quale, più che mai, l’Europa dovrebbe agire unita. 
Forse è venuto il momento di rendersi conto che, proprio perché viviamo in un mondo assai più complesso e policentrico che non nel passato, l’Europa dovrebbe, anziché cullarsi nella memoria illusoria del proprio ruolo globale, occuparsi con maggiore serietà di quella parte di mondo che sta intorno a noi e da cui provengono le opportunità e le minacce che ci toccano più da vicino. 
Vorrei riprendere un concetto a cui ho fatto riferimento all’inizio di questo intervento: il mondo è ormai post-euroatlantico e post-euroasiatico. Non rendersi conto di questa traslazione di potere e di influenza rischia di falsare anche la percezione delle nostre priorità di sicurezza. 
Viviamo in un mondo plurilaterale, in cui le istituzioni multilaterali svolgono un ruolo accanto a centri di influenza sovrani, attori non statali, non governativi e talvolta non invitati e non graditi, non ci si può illudere di risolvere i dilemmi della sicurezza con formule del secolo scorso. 
Non si può immaginare un futuro comune né per la NATO né per la Russia, se non sullo sfondo di questo nuovo scenario problematico, ma anche pieno di opportunità da saper cogliere congiuntamente. La sicurezza non può più essere concepita in termini di “stock” di certezze acquisite, ma va riconcettualizzata in termini di “flussi” di imprevedibili sfide. Pertanto, la NATO e la Russia non possono rimanere ancorate a dissidi statici e a schemi che, altrimenti, la storia si incaricherà di dimostrare superati.  


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